Giuseppe Leone

Nelle fotografie di Leone non cercate la collera né la pietà civile né l’avvampo della metafora; bensì, istigato dall’eccellente mestiere, un colpo d’occhio avvezzo a cogliere le mimiche significanti del grande teatro umano.

Gesualdo Bufalino

Giuseppe Leone, siciliano (vive e lavora a Ragusa), da oltre cinquant’anni racconta la Sicilia attraverso immagini di persone, luoghi, feste, paesaggi e architetture, quasi sempre in bianco e nero perché ‹‹il bianco e nero è l’interpretazione della natura e delle sue trasformazioni, il colpo d’occhio che scarica da ogni orpello un’immagine per dare senso a quello che è l’essenza di ciò che vedi››.

In veste di narratore ha condiviso l’esperienza profonda di questa terra con autori che come lui ne hanno saputo cogliere bellezza e contraddizioni – da Sciascia, a Bufalino, a Consolo – senza mai cadere nello stereotipo: ‹‹La macchina è uno strumento per poter dialogare con quello che ti circonda. Allora il fotografo diviene, oltre che un interprete, un ricercatore. A me non interessa l’immagine eclatante da scoop, ma una fotografia concettuale, di ricerca, di immediatezza, visto che mi dedico ad afferrare l’immagine al volo […]. Quando torno da una battuta fotografica sono felice se nel mio paniere ci sono almeno tre immagini indimenticabili. Le immagini per essere tali devono avere una grande forza evocativa e interpretativa››.

 

Dal catalogo “MAXXI Architettura. Fotografia”

per la collezione del Museo MAXXI di Roma

 

Di lui scrive Silvano Nigro:

“Leone è un narratore della Sicilia, dei suoi monumenti, delle sue feste, dei costumi e della vita tutta, per immagini fotografiche. Come  da viaggiatore incantato, forse l’ultimo in giro per l’Isola.

Un narratore che si è accompagnato a Sciascia, a Bufalino e a Consolo e ha rivelato alla letteratura, la Sicilia più vera, quella degli uomini come quella della pietra vissuta e del paesaggio”

Lo “Specchio” di Giuseppe Leone

Nelle mani di Giuseppe Leone, la macchina fotografica è come lo specchio che l’omino di una celebre acquaforte di Jindrich Pilecek  porta in giro per le strade a raccogliervi, in sintesi, e in riflesso, la città: “Eh, signori, il romanzo è uno specchio che uno porta lungo una strada”, scriveva Stendhal. Ma  Leone, per quanto narratore sia, non è un romanziere. A lui meglio si attaglia la qualifica di diarista. Tanto più si pensa a Gide, che Stendhal correggeva; e a un suo personaggio così faceva definire il diario: “ E’ lo specchio che porto a spasso con me”. E solo nel riflesso, nella scrittura del diario, o nell’immagine, ciò che accade è finalmente reale.

Le fotografie di Leone sono il “diario” della realtà siciliana; del paesaggio, come dei costumi; delle architetture, come delle feste e dei riti. La Sicilia si concentra nello “specchio” portatile di Leone, e si racconta. Anche attraverso il dolore e il lutto, che nei riti sacri di strada si inscenano, e nella narrazione di Leone trovano il linguaggio che li rende artisticamente reali: in una “prosa”, che sta tra Mantegna e il Rosso Fiorentino; tra il gioco scenico del primo, e le “maschere dell’altro. E ciò vale soprattutto per le sacre rappresentazioni della passione: per le processioni ora ieratiche, ora scomposte; per le scene di cordoglio e di compianto. Più che un viaggiatore in terra di Sicilia, Leone è qui un pellegrino in terra di Passione: tra le “feste” del dolore, cerca la Sindone; e la trova: in una cronaca di volti, tra teatri di gesti.